“Sinestesie dell’Io” di Daniela Cecchini
RECENSIONE A CURA DI ROSANNA CRACCO
La poesia sa abbracciare e questa volta l’abbraccio tenero e insieme determinato viene da Daniela Cecchini con il testo di liriche “Sinestesie dell’io”(La Caravella Editrice), dedicato alla figlia Alexia Giada. Un segnalare strano il mio, per nulla consueto da parte della voce critica, tuttavia mi alletta da subito sottolineare ciò che istintivamente ho colto dalla lettura della silloge: l’artista dallo scatto civico, ma al contempo dai lineamenti interiori, familiari, intimi e valoriali che tutto pervadono nel continuum della vita. E insieme la citazione respirata da Seneca “ Magis gauderes quod habueras, quam moereres quod amiseras” nella prima parte, o da Agostino d’Ippona nella seconda parte “noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” : godere dell’amore sempre e trovare la verità nell’intimo umano.
Sembrano particolari lievi, ma per me, pervasa come sono da bisogni emozionali e valoriali, sono quelle scelte invisibili che in realtà già disegnano e colorano il paesaggio della scrittura. Proiezioni interiori, sguardo al vicino e lontano, universale sentire, sensibilità, eticità, spiritualità, il tutto permeato dal mite fluire della cultura classica che diventa insieme forma e contenuto, autenticità e nello stesso tempo aspirazione-relazione, passione e insieme pacatezza.
Già il titolo uno svelare di segreti ed emozioni che vanno di pari passo con la vita. “Sinestesia dell’io”. La ricchezza linguistica del gr. sýn «con, assieme» e aisthánomai «percepisco, comprendo» sottende un capire insieme delicatamente, con sfere sensoriali diverse, la tela del quotidiano dove pelle e animo corrono di pari passo con lievità e leggerezza, ma anche con forza e saggezza. Ogni poesia un piede messo davanti all’altro: un camminare consapevole sul filo della vita, con la sincerità autentica dei sentimenti.
I diversi piani sensoriali si raccolgono in un io capace di avvertire la sacralità della vita nelle sue diverse espansioni: il senso dei ricordi, luce e materia umana, dolore e bisogni, la verità essenziale delle cose e del vissuto e la proiezione al bisogno presente, quale spunto per il futuro. Così Daniela Cecchini associa sentimenti e suoni, confrontando gusti, colori e vibrazioni, quasi toccando e accarezzando con tutti i sensi la vita sua e quella degli altri!
Il procedimento retorico della sinestesia, dunque, diviene simbolo della coagulazione dei diversi segmenti della vita: una fusione dei dissidi esistenziali colti attraverso i sensi distinti dell’animo.
Accostamenti ed esperienze, inconciliabili dal punto di vista sensoriale, diventano compatibili perché i sensi sentono e portano all’anima il loro messaggio. Contaminazioni sensoriali che non avvengono mai a senso unico e che si trasformano in sinestesie concettuali: dalla sinestesia dell'inducer percettivo al concurrent prodotto dal pensare.
Eccola la vita della nostra Daniela Cecchini dipanarsi tra i versi, tra segreti svelati, riflessioni, cose quotidiane e cose smisurate, consapevolezze personali e collettive che vanno di pari passo con le esternazioni del mondo.
Un atto di onestà con se stessa questa raccolta: mettere su carta è ammettere che tutto è successo davvero e ciò che siamo ora è il sunto del passato, vivibile nel presente.
Poesie dunque, le sue, che si nutrono di passato e di presente: nel retrogusto della memoria l’occhio al passato dà voce a emozioni nascoste, quasi sommerse nelle urgenze del presente che, riscoperte, ricordano la propria storia, piena soprattutto di bisogno. Quel bisogno che nasce solo dopo un percorso doloroso: il bisogno di svuotarsi, riconoscersi e poi riempirsi di nuovo. E rimettersi a nuovo di speranza e di credo in un mondo che ha bisogno di riconoscere la sua umanità. Così affermano chiaramente alcuni versi del testo poetico “Non c’è via di fuga”: : “Un dedalo di implosioni/ dilanianti,/ ma necessarie/ per sperare nella luce”.
I testi, quasi tutti legati tra loro da alcuni costanti fili conduttori, pur nel tessuto ricco che vive di più intrecci, diventano laboratorio di una narrazione intima e necessaria dove il concetto di ferita, parte insita del vivibile, diviene una possibilità prima di accettazione e poi di trasformazione, di crescita. E il pensiero quasi fisico diventa il luogo di questo manifestarsi, in cerca di uno spazio dove poter stare, facendone tensione verso il risveglio di cui abbisogna la mente.
Un carico esperienziale di triste autenticità insieme al coraggio di parlarne, probabilmente proprio perché necessario per affrontare la condizione del dolore: nella lirica “Fuori dalla palude” si sottolinea come i “vorticosi fallimenti” e il percorso su di una “strada sterrata” si chiudono alfine nella “improbabile prospettiva di incondizionata resa”.
Il primo filo che colgo è il bisogno d’amore, insieme alla presenza del dolore. È meglio avere amato e perso che non avere mai amato: una verità intensa che profondamente condivido e di cui individuo, come la maggior parte degli uomini, penso, i necessari contorni guardando me stessa e l’umanità che mi ritma intorno. Una verità che pervade l’intera silloge, attraversata da un inesorabile bisogno d’amore per sé e per gli altri. Amore negato, ascoso, malato, amore passione, amore desiderio, amore ossessione, amore tormento, sgomento, amore latitanza di certezze… ma com’è vero e necessario questo bisogno d’amore…
Daniela, mai spettatrice inerme nella proiezione di sé, fa dell’amore il perno della ricerca umana, quale unità cosmica da idealizzare, quasi comando ineludibile, a cui obbedire, anche se la “melodia di pensieri gemelli” e “la danza di note struggenti” solo di rado accompagnano, perché l’amore è spesso “eco lontana, inafferrabile”.
Sì, l’amore chiama lacrime e cammini impervi, ma nella corsa diacronica del tempo sa fermare momenti eterni, inesauribili, che sono tali proprio in prospettiva platonica: la percezione di “un unico respiro o il suono che giganteggia sull’inseguire di ombre e di tormenti” esiste proprio perché esiste l’inseguire: “ Vana l’attesa,/ma resisto./ Consapevole/ lotta impari,/ predestinato percorso/ verso l’eterno tormento” (da “Impervio cammino”), scrive Daniela. Sempre un dono, inatteso, atteso, tormentato, ma dono.
E non si tratta solo del suono protettivo della voce di un essere con cui dividere il pane compagno, ma anche, come in “Madre” di “Ricerca estenuante/ di calore negato./ Estrema forza per ripartire”, si tratta di calore che parte dal grembo natio, dalla tenerezza che scalda i muri di casa, dando quelle sicurezze di cui una creatura abbisogna.
Il sordo dolore manca di risposte: quando una “lieve melodia rotta dallo sconforto” chiama, la scrittrice annaspa, perché “La velocità del dolore/ è insuperabile”, ma la coscienza di alcune personali perdite affettive importanti non toglie a Daniela il valore intrinseco del mondo, l’attenzione per chi soffre, per i deboli…
E i due aspetti, apparentemente diversi, sembrano fondersi in un unicum affettivo: il suo bisogno d’amore da spendere in quella che è da ritenersi la vera umanità!
Amore e dolore corrono insieme quando “ormai tutto è assuefazione”, quando “immagini devastanti/ scuotono gli animi in un palpito”. Un dolore che non è solo personale ma anche dell’umanità: quello della sposa bambina, di coloro che non si possono permettere il salvagente per attraversare il mare, del freddo che tocca l’anima nei treni stracarichi di anime che vanno verso i campi di concentramento, dei bambini soldato derubati dall’anima, delle prostitute bambine, insomma di una umanità in ostaggio del male. Diversi testi diventano un grido di denuncia che già in sé hanno l’azione della coscienza collettiva che non può tacere. Nella posizione gerarchica dei valori, non è un caso che Daniela introduca esperienze di dolore collettivo reali e inconfondibili. A volte l’esilio di affetti importanti fa vedere chiaramente quello di cui c’è bisogno: una carezza al mondo, alla vita, a chi soffre.
Altro filo conduttore il senso del tempo. Che cos’è il tempo? È sicuramente qualcosa che si innesca al valore delle cose che determina.
“Il tempo scorre impietoso/ fra nostalgie e rimpianti/ di ciò che non è stato”. Tra le dimensioni temporali, nel “passato da evitare,/ nel presente da vivere,/ nel futuro da sperare” sempre la voglia di recuperare “briciole d’amore” ( da “Quel che resta”).
A volte prigioniera, Daniela insegue il tempo, si affanna per poi soggiacere alla clessidra inesorabile che, girata di continuo, trasforma la categoria temporale in una “corsa a ostacoli infinita”.
Ma il tempo diviene anche categoria di conoscenza critica. E tramite la critica avviene il passaggio alla resistenza non solo mentale, ma anche fisica. Non è acquiescenza allo stato di fatto, perché il tempo è strumento di verità assunta dal singolo che si rafforza nella voce degli altri, dell’umanità intera.
Nella “sabbia del tempo” che “scandisce/ il ritmo incolore dell’esistenza.” (da “Lampo infinito”), “anche lo spazio è privo di confini e “noi anime inadeguate mostriamo nudi i nostri limiti”. Ascoltando “i silenzi del tempo”, il suo pensiero annega in “mancate risposte”, ma è pur costretta a proseguire l’incerto cammino. E lei ne ha piena consapevolezza, concedendosi “spazi di respiro/ reconditi e preziosi” rifugiando le idee nel surreale. “interminabile attimo” che riconcilia (da “Attimo”).
Anche se il vuoto dilaga intorno, il tempo, benché fasciato, accade ed è nostro compito non sostare troppo nella tempesta. In questo senso la lettura temporale è un atto di coraggio perché solo “ gocce di tempo” sanno restituire anche “un furtivo sorriso. Monocromo, prezioso cameo/ di inusitata, fuggevole dolcezza” (da “Sipario strappato”).
Altra proiezione sempre presente è la ricerca dell’io nella forza e nella complessità del pensiero, una lezione da assorbire e condividere.
Nella lirica “La prigione” Daniela riassume in otto versi questo sentire. “L’anima, prigioniera del suo involucro/ si affanna, poi soffoca. Ma mette le ali/ quando si nutre/ di vita interiore/ Spazio che non è lusso/ ma scrigno di respiri in libertà”, libertà di uno spirito ribelle all’eccessivo materialismo del nostro tempo.
“Sipario aperto timida spaurita bambina,/ il mio paesaggio onirico,/nostalgico silenzio avverto”, sottolinea Daniela fin dai primi versi, nel suo bisogno di abbandonarsi al sogno, “Incanto, immaginazione, fertilità creativa… Speranza invoco” ( da Proiezioni interiori”).
A volte è costretta a indossare la maschera “nota sinossi”, ma è ancora l’illusione a regalare sorriso e pianto (da “La maschera”).
Sì, il mondo può essere una “palude di mediocrità”, dove si respirano venti di guerra, e lo scenario è egoismo dilagante padrone dei tempi, ma la sua domanda diventa pura retorica: come può l’uomo negare a se stesso “l’armonia delle emozioni?” . Daniela conosce bene la risposta: pensare e pensare, come dire conoscere!
La forza del pensiero naturalmente sfocia nella ricerca di libertà. E non si tratta di libertà asservita, falsa, ma della libertà sublime del pensiero. Anche se noi siamo “frenetiche particelle senza meta”, abbiamo qualcosa a cui affidarci: “Incanto, immaginazione, fertilità creativa./ Rinnovata forza impetuosa/dalle catene il pensiero libera”.
Solo così si può aprire un percorso di luce in grado di portare a nuovi orizzonti:“ Notte fonda per la cultura./ Inermi assistiamo/ al lento naufragare/ del pensiero./ Il regresso incalza, / febbrile, trascinante./ Come avida gazza,/ deruba la mente/ della luce di libertà” (“Naufragio”).
Solo il recupero della coscienza del sé, l’amore ed il rispetto per l’altro ci trasformano in gabbiani che “nel loro perpetuo vagare” danno respiro alla libertà “sorvolando l’ignavo qualunquismo” (da “Proiezioni interiori”).
In tale percorso interiore la strada della scrittura diventa assoluta libertà, in cui cullare chi scrive e chi legge, grazie ai granelli di naturalezza del messaggio e anche di fede che inconsapevolmente deposita nel procedere dei versi. I suoi travagli sono i nostri, la sua ricerca, il nostro andare quotidiano, il suo chiedersi le nostre domande sul mistero della vita. Come lei, il lettore diviene “sfrenata anima pensante” che il vuoto riconcilia, mentre “assordanti silenzi/ regalano quiete” (da “Arduo sperare”).
Bisogna ascoltare l’imperativo tenue di Daniela che campeggia nella brevità dei versi della lirica “Come un fiore”, che in modo particolare mi ha trascinato: “Apriti,/ come gerbera regala/ all’aria i petali suoi./ Liberati,/ dall’oppressione/ che incatena il pensiero./ Risvegliati,/ dall’abulia della mente.”
La trama fitta di tensioni si traduce in un parlare che non grida. L’esperienza del vivere rivisitata e presa tra le mani si dipana in parole misurate nella pagina, mai eccessive, sgorgate dalla capacità di penetrare il vissuto, la vita stessa. Si tratta di una poesia umanissima, caratterizzata da un dettato misurato e privo di qualsiasi esibizionismo, espresso in versi liberi, senza norme ritmiche perché il ritmo è tutto nella parola stessa dei versi, mai eccessivamente lunghi, stringati e densamente concettuosi, che a volte vengono a coincidere con una sola parola.
Non si tratta mai di parole smarrite, ma di un colloquiare quasi con le dimensioni dell’equilibrio interiore.
La lingua, che possiede un suo ritmo interno, procede attraverso levigatezze e aperture che sembrano ripercorrere il dramma di ogni uomo, attraverso l’alternarsi di momenti di rassegnazione, a volte speranza e relativa serenità.
Il suo scrivere versi diviene quasi liberazione leggera: un grumo di parole che si alleggerisce, che spinge per essere messo in fila, secondo un certo ordine, sul bianco di una pagina. Una prospettiva linguistica che diventa originale nella sua pacatezza.
Una padronanza linguistica che evidenzia continue e proficue letture, capaci di spaziare in molti ambiti, dal linguaggio letterario a quello giornalistico: per conoscere il linguaggio della poesia è necessario leggere e leggere tanto!
Il testo restituisce con la sua lettura un’idea di equilibrio e insieme di tensione: come stare su un filo con forza ed eleganza e non cadere. Accettare, eppure batterci, fare pace infine con la vita stessa. Così si lascia andare il dolore, senza necessariamente gridare.
Ovunque un ritmo ed una musicalità, che cadenzano una vera e propria riscrittura dell’anima, attraverso l’espressione di grande padronanza linguistica e letteraria: nella coabitazione naturale di questi due aspetti, padronanza linguistica e letteraria insieme allo spessore interiore, sta la bellezza di questa silloge a cui è giusto dedicare tutta l’attenzione possibile.
RECENSIONE A CURA DI ROSANNA CRACCO
La poesia sa abbracciare e questa volta l’abbraccio tenero e insieme determinato viene da Daniela Cecchini con il testo di liriche “Sinestesie dell’io”(La Caravella Editrice), dedicato alla figlia Alexia Giada. Un segnalare strano il mio, per nulla consueto da parte della voce critica, tuttavia mi alletta da subito sottolineare ciò che istintivamente ho colto dalla lettura della silloge: l’artista dallo scatto civico, ma al contempo dai lineamenti interiori, familiari, intimi e valoriali che tutto pervadono nel continuum della vita. E insieme la citazione respirata da Seneca “ Magis gauderes quod habueras, quam moereres quod amiseras” nella prima parte, o da Agostino d’Ippona nella seconda parte “noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” : godere dell’amore sempre e trovare la verità nell’intimo umano.
Sembrano particolari lievi, ma per me, pervasa come sono da bisogni emozionali e valoriali, sono quelle scelte invisibili che in realtà già disegnano e colorano il paesaggio della scrittura. Proiezioni interiori, sguardo al vicino e lontano, universale sentire, sensibilità, eticità, spiritualità, il tutto permeato dal mite fluire della cultura classica che diventa insieme forma e contenuto, autenticità e nello stesso tempo aspirazione-relazione, passione e insieme pacatezza.
Già il titolo uno svelare di segreti ed emozioni che vanno di pari passo con la vita. “Sinestesia dell’io”. La ricchezza linguistica del gr. sýn «con, assieme» e aisthánomai «percepisco, comprendo» sottende un capire insieme delicatamente, con sfere sensoriali diverse, la tela del quotidiano dove pelle e animo corrono di pari passo con lievità e leggerezza, ma anche con forza e saggezza. Ogni poesia un piede messo davanti all’altro: un camminare consapevole sul filo della vita, con la sincerità autentica dei sentimenti.
I diversi piani sensoriali si raccolgono in un io capace di avvertire la sacralità della vita nelle sue diverse espansioni: il senso dei ricordi, luce e materia umana, dolore e bisogni, la verità essenziale delle cose e del vissuto e la proiezione al bisogno presente, quale spunto per il futuro. Così Daniela Cecchini associa sentimenti e suoni, confrontando gusti, colori e vibrazioni, quasi toccando e accarezzando con tutti i sensi la vita sua e quella degli altri!
Il procedimento retorico della sinestesia, dunque, diviene simbolo della coagulazione dei diversi segmenti della vita: una fusione dei dissidi esistenziali colti attraverso i sensi distinti dell’animo.
Accostamenti ed esperienze, inconciliabili dal punto di vista sensoriale, diventano compatibili perché i sensi sentono e portano all’anima il loro messaggio. Contaminazioni sensoriali che non avvengono mai a senso unico e che si trasformano in sinestesie concettuali: dalla sinestesia dell'inducer percettivo al concurrent prodotto dal pensare.
Eccola la vita della nostra Daniela Cecchini dipanarsi tra i versi, tra segreti svelati, riflessioni, cose quotidiane e cose smisurate, consapevolezze personali e collettive che vanno di pari passo con le esternazioni del mondo.
Un atto di onestà con se stessa questa raccolta: mettere su carta è ammettere che tutto è successo davvero e ciò che siamo ora è il sunto del passato, vivibile nel presente.
Poesie dunque, le sue, che si nutrono di passato e di presente: nel retrogusto della memoria l’occhio al passato dà voce a emozioni nascoste, quasi sommerse nelle urgenze del presente che, riscoperte, ricordano la propria storia, piena soprattutto di bisogno. Quel bisogno che nasce solo dopo un percorso doloroso: il bisogno di svuotarsi, riconoscersi e poi riempirsi di nuovo. E rimettersi a nuovo di speranza e di credo in un mondo che ha bisogno di riconoscere la sua umanità. Così affermano chiaramente alcuni versi del testo poetico “Non c’è via di fuga”: : “Un dedalo di implosioni/ dilanianti,/ ma necessarie/ per sperare nella luce”.
I testi, quasi tutti legati tra loro da alcuni costanti fili conduttori, pur nel tessuto ricco che vive di più intrecci, diventano laboratorio di una narrazione intima e necessaria dove il concetto di ferita, parte insita del vivibile, diviene una possibilità prima di accettazione e poi di trasformazione, di crescita. E il pensiero quasi fisico diventa il luogo di questo manifestarsi, in cerca di uno spazio dove poter stare, facendone tensione verso il risveglio di cui abbisogna la mente.
Un carico esperienziale di triste autenticità insieme al coraggio di parlarne, probabilmente proprio perché necessario per affrontare la condizione del dolore: nella lirica “Fuori dalla palude” si sottolinea come i “vorticosi fallimenti” e il percorso su di una “strada sterrata” si chiudono alfine nella “improbabile prospettiva di incondizionata resa”.
Il primo filo che colgo è il bisogno d’amore, insieme alla presenza del dolore. È meglio avere amato e perso che non avere mai amato: una verità intensa che profondamente condivido e di cui individuo, come la maggior parte degli uomini, penso, i necessari contorni guardando me stessa e l’umanità che mi ritma intorno. Una verità che pervade l’intera silloge, attraversata da un inesorabile bisogno d’amore per sé e per gli altri. Amore negato, ascoso, malato, amore passione, amore desiderio, amore ossessione, amore tormento, sgomento, amore latitanza di certezze… ma com’è vero e necessario questo bisogno d’amore…
Daniela, mai spettatrice inerme nella proiezione di sé, fa dell’amore il perno della ricerca umana, quale unità cosmica da idealizzare, quasi comando ineludibile, a cui obbedire, anche se la “melodia di pensieri gemelli” e “la danza di note struggenti” solo di rado accompagnano, perché l’amore è spesso “eco lontana, inafferrabile”.
Sì, l’amore chiama lacrime e cammini impervi, ma nella corsa diacronica del tempo sa fermare momenti eterni, inesauribili, che sono tali proprio in prospettiva platonica: la percezione di “un unico respiro o il suono che giganteggia sull’inseguire di ombre e di tormenti” esiste proprio perché esiste l’inseguire: “ Vana l’attesa,/ma resisto./ Consapevole/ lotta impari,/ predestinato percorso/ verso l’eterno tormento” (da “Impervio cammino”), scrive Daniela. Sempre un dono, inatteso, atteso, tormentato, ma dono.
E non si tratta solo del suono protettivo della voce di un essere con cui dividere il pane compagno, ma anche, come in “Madre” di “Ricerca estenuante/ di calore negato./ Estrema forza per ripartire”, si tratta di calore che parte dal grembo natio, dalla tenerezza che scalda i muri di casa, dando quelle sicurezze di cui una creatura abbisogna.
Il sordo dolore manca di risposte: quando una “lieve melodia rotta dallo sconforto” chiama, la scrittrice annaspa, perché “La velocità del dolore/ è insuperabile”, ma la coscienza di alcune personali perdite affettive importanti non toglie a Daniela il valore intrinseco del mondo, l’attenzione per chi soffre, per i deboli…
E i due aspetti, apparentemente diversi, sembrano fondersi in un unicum affettivo: il suo bisogno d’amore da spendere in quella che è da ritenersi la vera umanità!
Amore e dolore corrono insieme quando “ormai tutto è assuefazione”, quando “immagini devastanti/ scuotono gli animi in un palpito”. Un dolore che non è solo personale ma anche dell’umanità: quello della sposa bambina, di coloro che non si possono permettere il salvagente per attraversare il mare, del freddo che tocca l’anima nei treni stracarichi di anime che vanno verso i campi di concentramento, dei bambini soldato derubati dall’anima, delle prostitute bambine, insomma di una umanità in ostaggio del male. Diversi testi diventano un grido di denuncia che già in sé hanno l’azione della coscienza collettiva che non può tacere. Nella posizione gerarchica dei valori, non è un caso che Daniela introduca esperienze di dolore collettivo reali e inconfondibili. A volte l’esilio di affetti importanti fa vedere chiaramente quello di cui c’è bisogno: una carezza al mondo, alla vita, a chi soffre.
Altro filo conduttore il senso del tempo. Che cos’è il tempo? È sicuramente qualcosa che si innesca al valore delle cose che determina.
“Il tempo scorre impietoso/ fra nostalgie e rimpianti/ di ciò che non è stato”. Tra le dimensioni temporali, nel “passato da evitare,/ nel presente da vivere,/ nel futuro da sperare” sempre la voglia di recuperare “briciole d’amore” ( da “Quel che resta”).
A volte prigioniera, Daniela insegue il tempo, si affanna per poi soggiacere alla clessidra inesorabile che, girata di continuo, trasforma la categoria temporale in una “corsa a ostacoli infinita”.
Ma il tempo diviene anche categoria di conoscenza critica. E tramite la critica avviene il passaggio alla resistenza non solo mentale, ma anche fisica. Non è acquiescenza allo stato di fatto, perché il tempo è strumento di verità assunta dal singolo che si rafforza nella voce degli altri, dell’umanità intera.
Nella “sabbia del tempo” che “scandisce/ il ritmo incolore dell’esistenza.” (da “Lampo infinito”), “anche lo spazio è privo di confini e “noi anime inadeguate mostriamo nudi i nostri limiti”. Ascoltando “i silenzi del tempo”, il suo pensiero annega in “mancate risposte”, ma è pur costretta a proseguire l’incerto cammino. E lei ne ha piena consapevolezza, concedendosi “spazi di respiro/ reconditi e preziosi” rifugiando le idee nel surreale. “interminabile attimo” che riconcilia (da “Attimo”).
Anche se il vuoto dilaga intorno, il tempo, benché fasciato, accade ed è nostro compito non sostare troppo nella tempesta. In questo senso la lettura temporale è un atto di coraggio perché solo “ gocce di tempo” sanno restituire anche “un furtivo sorriso. Monocromo, prezioso cameo/ di inusitata, fuggevole dolcezza” (da “Sipario strappato”).
Altra proiezione sempre presente è la ricerca dell’io nella forza e nella complessità del pensiero, una lezione da assorbire e condividere.
Nella lirica “La prigione” Daniela riassume in otto versi questo sentire. “L’anima, prigioniera del suo involucro/ si affanna, poi soffoca. Ma mette le ali/ quando si nutre/ di vita interiore/ Spazio che non è lusso/ ma scrigno di respiri in libertà”, libertà di uno spirito ribelle all’eccessivo materialismo del nostro tempo.
“Sipario aperto timida spaurita bambina,/ il mio paesaggio onirico,/nostalgico silenzio avverto”, sottolinea Daniela fin dai primi versi, nel suo bisogno di abbandonarsi al sogno, “Incanto, immaginazione, fertilità creativa… Speranza invoco” ( da Proiezioni interiori”).
A volte è costretta a indossare la maschera “nota sinossi”, ma è ancora l’illusione a regalare sorriso e pianto (da “La maschera”).
Sì, il mondo può essere una “palude di mediocrità”, dove si respirano venti di guerra, e lo scenario è egoismo dilagante padrone dei tempi, ma la sua domanda diventa pura retorica: come può l’uomo negare a se stesso “l’armonia delle emozioni?” . Daniela conosce bene la risposta: pensare e pensare, come dire conoscere!
La forza del pensiero naturalmente sfocia nella ricerca di libertà. E non si tratta di libertà asservita, falsa, ma della libertà sublime del pensiero. Anche se noi siamo “frenetiche particelle senza meta”, abbiamo qualcosa a cui affidarci: “Incanto, immaginazione, fertilità creativa./ Rinnovata forza impetuosa/dalle catene il pensiero libera”.
Solo così si può aprire un percorso di luce in grado di portare a nuovi orizzonti:“ Notte fonda per la cultura./ Inermi assistiamo/ al lento naufragare/ del pensiero./ Il regresso incalza, / febbrile, trascinante./ Come avida gazza,/ deruba la mente/ della luce di libertà” (“Naufragio”).
Solo il recupero della coscienza del sé, l’amore ed il rispetto per l’altro ci trasformano in gabbiani che “nel loro perpetuo vagare” danno respiro alla libertà “sorvolando l’ignavo qualunquismo” (da “Proiezioni interiori”).
In tale percorso interiore la strada della scrittura diventa assoluta libertà, in cui cullare chi scrive e chi legge, grazie ai granelli di naturalezza del messaggio e anche di fede che inconsapevolmente deposita nel procedere dei versi. I suoi travagli sono i nostri, la sua ricerca, il nostro andare quotidiano, il suo chiedersi le nostre domande sul mistero della vita. Come lei, il lettore diviene “sfrenata anima pensante” che il vuoto riconcilia, mentre “assordanti silenzi/ regalano quiete” (da “Arduo sperare”).
Bisogna ascoltare l’imperativo tenue di Daniela che campeggia nella brevità dei versi della lirica “Come un fiore”, che in modo particolare mi ha trascinato: “Apriti,/ come gerbera regala/ all’aria i petali suoi./ Liberati,/ dall’oppressione/ che incatena il pensiero./ Risvegliati,/ dall’abulia della mente.”
La trama fitta di tensioni si traduce in un parlare che non grida. L’esperienza del vivere rivisitata e presa tra le mani si dipana in parole misurate nella pagina, mai eccessive, sgorgate dalla capacità di penetrare il vissuto, la vita stessa. Si tratta di una poesia umanissima, caratterizzata da un dettato misurato e privo di qualsiasi esibizionismo, espresso in versi liberi, senza norme ritmiche perché il ritmo è tutto nella parola stessa dei versi, mai eccessivamente lunghi, stringati e densamente concettuosi, che a volte vengono a coincidere con una sola parola.
Non si tratta mai di parole smarrite, ma di un colloquiare quasi con le dimensioni dell’equilibrio interiore.
La lingua, che possiede un suo ritmo interno, procede attraverso levigatezze e aperture che sembrano ripercorrere il dramma di ogni uomo, attraverso l’alternarsi di momenti di rassegnazione, a volte speranza e relativa serenità.
Il suo scrivere versi diviene quasi liberazione leggera: un grumo di parole che si alleggerisce, che spinge per essere messo in fila, secondo un certo ordine, sul bianco di una pagina. Una prospettiva linguistica che diventa originale nella sua pacatezza.
Una padronanza linguistica che evidenzia continue e proficue letture, capaci di spaziare in molti ambiti, dal linguaggio letterario a quello giornalistico: per conoscere il linguaggio della poesia è necessario leggere e leggere tanto!
Il testo restituisce con la sua lettura un’idea di equilibrio e insieme di tensione: come stare su un filo con forza ed eleganza e non cadere. Accettare, eppure batterci, fare pace infine con la vita stessa. Così si lascia andare il dolore, senza necessariamente gridare.
Ovunque un ritmo ed una musicalità, che cadenzano una vera e propria riscrittura dell’anima, attraverso l’espressione di grande padronanza linguistica e letteraria: nella coabitazione naturale di questi due aspetti, padronanza linguistica e letteraria insieme allo spessore interiore, sta la bellezza di questa silloge a cui è giusto dedicare tutta l’attenzione possibile.