Sulla poesia di Daniela Cecchini
di Giorgio Linguaglossa (critico letterario, saggista, scrittore e poeta)
Heidegger con la sua riflessione sull’«oblio dell’essere» ha avuto una influenza non proprio positiva sulla poesia italiana del Novecento, ben pochi tra i poeti hanno letto le pagine di Essere e tempo. I più hanno solo orecchiato dei filosofemi passati di seconda mano. Il problema dell'essere ha portato, qui da noi, alla de-fondamentalizzazione della forma-poesia; e di qui alla dismetria e alla distassia del linguaggio poetico il passo è stato breve. È avvenuto così che il Novecento ha lasciato in eredità alla poesia italiana la positivizzazione e la sproblematizzazione dei linguaggi poetici, che sono sortiti fuori come funghi, ingessati, febbricitanti, privatizzati, ionizzati da un massiccio bombardamento di poesia performativa, talqualismo e di chatpoetry, showpoetry, slampoetry. E chi più ne ha più ne metta.
L'antologia curata da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli Il pubblico della poesia (1975), rivelava una nuova identità dei poeti-massa, i quali avevano in comune alcune caratteristiche: il venire "dopo" l'impegno politico e la neo-avanguardia, dopo la contestazione, dopo l'informale e il formalismo, dopo il Sessantotto.
Si trattava, spesso genericamente, di semplice "riscoperta della poesia" dopo e contro i numerosi "processi alla poesia" istruiti precedentemente da poeti-critici o critici-poeti come Franco Fortini e Edoardo Sanguineti, per fare solo due nomi fra i più autorevoli.
Salvo alcuni postumi, la febbre autocritica già nella seconda metà degli anni Settanta tendeva a sparire e non ricomparve più in seguito... l'idea e il mito della poesia ricominciarono a vivere una vita felice1. Si era scoperto il «privato», come si diceva allora. E con il rinnovato mito della poesia ecco farsi avanti una massa di poeti massa.
C’è una «domanda fondamentale» che muove la poesia. È la domanda che interroga la Crisi.
Che cos’è la Crisi? Direi che la Crisi è la modalità dominante con la quale si presenta a noi l'inautenticità del mondo moderno; la modalità con cui si manifesta in noi la difficoltà di porre la «domanda fondamentale», quella domanda che consente di aprire il campo di indagine mediante la scoperta di altre domande nascoste, soggiacenti, che stanno sotto il tegumento dei discorsi a vanvera del positivismo di questi anni. La poesia contemporanea è «la pista di pattinaggio del post-contemporaneo», una superficie piatta, unidimensionale dove tutte le scritture poetiche si assomigliano, sono interscambiabili, non delimitano un «oggetto», sono orfane, prive di «tradizione», non hanno nulla dietro di sé e, davanti, si estende la pista di pattinaggio dell’«ignoto», sono delle zattere che vanno alla deriva delle correnti del mare dell’«ignoto», senza un progetto, una idea di poetica, una idea dell’oggetto da rappresentare.
Nel mio ultimo libro di critica (Dopo il Novecento2) ho chiamato questa situazione della poesia contemporanea italiana «La partenza degli argonauti», riferendomi alla mitica partenza degli argonauti alla ricerca del vello d’oro. Leggendo la poesia contemporanea ho sempre la sensazione di una partenza di massa verso il traguardo del successo e della visibilità. Ho la netta sensazione della scomparsa della «domanda fondamentale»: perché si scrive poesia, e per chi?; in assenza di questa domanda preliminare oggi si scrive poesia in base ad una pulsione corporale, ad un bisogno personale, ad un calcolo di visibilità, certo psicologicamente comprensibile, ma che non può dar luogo che a risultati irrilevanti. Spesso si ciarla di dimensione etica dell’estetica proprio da parte di chi insegue lo stesso obiettivo perseguito dalla razionalità del mercato e dell’etica monetaria: il successo e la visibilità. Si scrivono i libri di poesia come si scrivono i romanzi: si tende al successo, se non delle vendite almeno a quello della vetrina della visibilità.
Sì, la «domanda fondamentale» può anche scomparire per intere epoche, per decenni o per secoli, se qualcuno non la ripesca dal mare dell’oblio: Mnemosine (la memoria) non è la madre delle Muse? E la poesia non è un prodotto delle Muse? La poesia ha il compito di porre delle «domande», altrimenti è ciarla, chiacchiera da bar dello sport o spot televisivo. Credo che queste poesie di Daniela Cecchini rispondano pienamente al quesito: «Qual è per voi la domanda fondamentale?».
Se vogliamo, ogni poeta ha un suo peculiarissimo palato verso la lingua. E, direi che Daniela Cecchini ha uno spiccato senso delle parole consonantiche, della carnalità delle parole. Scrive Arthur Schopenhauer su “Parerga” paragrafo 298-300, «Sulla lingua e sulle parole»: «Le consonanti sono lo scheletro e le vocali sono la carne delle parole. Quello è… inalterabile, questa è assai variabile invece quanto a colore, caratteristiche e quantità. Pertanto, le parole mantengono in generale piuttosto compiutamente le loro consonanti, nonostante migrino attraverso i secoli o piuttosto da una lingua all’altra, e però cambiano facilmente le loro vocali…».
Daniela Cecchini sceglie la linea «elegiaca» senza elegia, un verso di origine narrativa, tenta di ribaltare la linea elegiaca mettendo in scena tematiche alte: il doppio, il traslato, il simbolico senza simbolo, il simbolo senza simbolico, la de-territorializzazione dell'io e la confezione di una «poesia del negativo». Un lavoro promettente.
Nella poesia di Daniela Cecchini l’intarsio cerimoniale delle antifone e delle assonanze scorre dentro una sostenuta partitura discorsiva, incasella figure tratte dal repertorio più vario, anche da quello della poesia civile. La versificazione è a metro libero. La tensione tra lirico e narrativo, su cui si regge questo canzoniere, è mantenuta senza concessioni al didascalico, né al patetico: gli scenari sono storici, concernono i drammi del nostro tempo; il dissidio esistenziale che ne consegue si riflette e prende evidenza dalle vicende narrate, spesso raggiungendo in chiusa di testo immagini di sintesi che non si dimenticano: «Monocromo, prezioso cammeo», «… La sabbia del tempo / scandisce / il ritmo incolore dell'esistenza. / Nello spazio privo di confini / noi, anime inadeguate...».
La poesia della Cecchini intona così, con ansia raziocinante, il suo rosario di disincanto e dis-appartenenza, che, come per sfida s’impunta, con spietata tenerezza, sul motivo etico, sullo scatto civico. Circola in queste poesie l'amarezza e il civile risentimento per le donne conculcate dei loro diritti, per i soprusi perpetrati contro gli indifesi e i bambini, lo sdegno per le ingiustizie degli uomini, l’umiliazione per la trama di affetti negati: «La tua mano tremante e calda», con il lemma assertorio in evidenza, come in «Contiguo confine tra genio e follia».
Alcuni degli esiti migliori si trovano in scene di crudo esterno urbano, ma anche in immagini colte al volo di luoghi e persone che potrebbero facilmente ridursi a bozzetti ed, invece, si dilatano in prove di vasta allegoria, come se lo spleen della Cecchini vi traducesse, in controluce, i quadri di un suo Baudelaire immaginario.
Del resto, Daniela Cecchini non nasconde i propri maestri, li chiama indirettamente e velatamente in causa attraverso rimandi criptici e allusivi alla grande poesia civile di Fortini, di Caproni, di Pasolini.
Riverberi, allusivi e anamnestici richiami, ma anche tappe autonome di una poetica personale che si dispiega con dovizia di spunti interpretativi e di riferimenti iconici. Poche pagine di poesia in cui si condensa esemplarmente la “costellazione” che presiede alle prove di più di una generazione: come un tempo si dovette attraversare Carducci, Pascoli, D’Annunzio, adesso i territori da attraversare sono soprattutto le liriche d'impegno civile dei poeti nominati e della poesia di Helle Busacca. Com’è giusto che sia.
Ma le genealogie letterarie, alla fine, non sono di per sé garanzia di alcunché, e non è per quelle che condividiamo la poesia di Daniela Cecchini, bensì per i suoi lemuri, per il pervasivo pensiero che intensamente manifesta e per gli umori che improvvisamente svela.
1 A. Berardinelli Casi critici Dal postmoderno alla mutazione Quodlibet 2007 p. 305
2 G. Linguaglossa Dopo il Novecento Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, 2013
Giorgio Linguaglossa
di Giorgio Linguaglossa (critico letterario, saggista, scrittore e poeta)
Heidegger con la sua riflessione sull’«oblio dell’essere» ha avuto una influenza non proprio positiva sulla poesia italiana del Novecento, ben pochi tra i poeti hanno letto le pagine di Essere e tempo. I più hanno solo orecchiato dei filosofemi passati di seconda mano. Il problema dell'essere ha portato, qui da noi, alla de-fondamentalizzazione della forma-poesia; e di qui alla dismetria e alla distassia del linguaggio poetico il passo è stato breve. È avvenuto così che il Novecento ha lasciato in eredità alla poesia italiana la positivizzazione e la sproblematizzazione dei linguaggi poetici, che sono sortiti fuori come funghi, ingessati, febbricitanti, privatizzati, ionizzati da un massiccio bombardamento di poesia performativa, talqualismo e di chatpoetry, showpoetry, slampoetry. E chi più ne ha più ne metta.
L'antologia curata da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli Il pubblico della poesia (1975), rivelava una nuova identità dei poeti-massa, i quali avevano in comune alcune caratteristiche: il venire "dopo" l'impegno politico e la neo-avanguardia, dopo la contestazione, dopo l'informale e il formalismo, dopo il Sessantotto.
Si trattava, spesso genericamente, di semplice "riscoperta della poesia" dopo e contro i numerosi "processi alla poesia" istruiti precedentemente da poeti-critici o critici-poeti come Franco Fortini e Edoardo Sanguineti, per fare solo due nomi fra i più autorevoli.
Salvo alcuni postumi, la febbre autocritica già nella seconda metà degli anni Settanta tendeva a sparire e non ricomparve più in seguito... l'idea e il mito della poesia ricominciarono a vivere una vita felice1. Si era scoperto il «privato», come si diceva allora. E con il rinnovato mito della poesia ecco farsi avanti una massa di poeti massa.
C’è una «domanda fondamentale» che muove la poesia. È la domanda che interroga la Crisi.
Che cos’è la Crisi? Direi che la Crisi è la modalità dominante con la quale si presenta a noi l'inautenticità del mondo moderno; la modalità con cui si manifesta in noi la difficoltà di porre la «domanda fondamentale», quella domanda che consente di aprire il campo di indagine mediante la scoperta di altre domande nascoste, soggiacenti, che stanno sotto il tegumento dei discorsi a vanvera del positivismo di questi anni. La poesia contemporanea è «la pista di pattinaggio del post-contemporaneo», una superficie piatta, unidimensionale dove tutte le scritture poetiche si assomigliano, sono interscambiabili, non delimitano un «oggetto», sono orfane, prive di «tradizione», non hanno nulla dietro di sé e, davanti, si estende la pista di pattinaggio dell’«ignoto», sono delle zattere che vanno alla deriva delle correnti del mare dell’«ignoto», senza un progetto, una idea di poetica, una idea dell’oggetto da rappresentare.
Nel mio ultimo libro di critica (Dopo il Novecento2) ho chiamato questa situazione della poesia contemporanea italiana «La partenza degli argonauti», riferendomi alla mitica partenza degli argonauti alla ricerca del vello d’oro. Leggendo la poesia contemporanea ho sempre la sensazione di una partenza di massa verso il traguardo del successo e della visibilità. Ho la netta sensazione della scomparsa della «domanda fondamentale»: perché si scrive poesia, e per chi?; in assenza di questa domanda preliminare oggi si scrive poesia in base ad una pulsione corporale, ad un bisogno personale, ad un calcolo di visibilità, certo psicologicamente comprensibile, ma che non può dar luogo che a risultati irrilevanti. Spesso si ciarla di dimensione etica dell’estetica proprio da parte di chi insegue lo stesso obiettivo perseguito dalla razionalità del mercato e dell’etica monetaria: il successo e la visibilità. Si scrivono i libri di poesia come si scrivono i romanzi: si tende al successo, se non delle vendite almeno a quello della vetrina della visibilità.
Sì, la «domanda fondamentale» può anche scomparire per intere epoche, per decenni o per secoli, se qualcuno non la ripesca dal mare dell’oblio: Mnemosine (la memoria) non è la madre delle Muse? E la poesia non è un prodotto delle Muse? La poesia ha il compito di porre delle «domande», altrimenti è ciarla, chiacchiera da bar dello sport o spot televisivo. Credo che queste poesie di Daniela Cecchini rispondano pienamente al quesito: «Qual è per voi la domanda fondamentale?».
Se vogliamo, ogni poeta ha un suo peculiarissimo palato verso la lingua. E, direi che Daniela Cecchini ha uno spiccato senso delle parole consonantiche, della carnalità delle parole. Scrive Arthur Schopenhauer su “Parerga” paragrafo 298-300, «Sulla lingua e sulle parole»: «Le consonanti sono lo scheletro e le vocali sono la carne delle parole. Quello è… inalterabile, questa è assai variabile invece quanto a colore, caratteristiche e quantità. Pertanto, le parole mantengono in generale piuttosto compiutamente le loro consonanti, nonostante migrino attraverso i secoli o piuttosto da una lingua all’altra, e però cambiano facilmente le loro vocali…».
Daniela Cecchini sceglie la linea «elegiaca» senza elegia, un verso di origine narrativa, tenta di ribaltare la linea elegiaca mettendo in scena tematiche alte: il doppio, il traslato, il simbolico senza simbolo, il simbolo senza simbolico, la de-territorializzazione dell'io e la confezione di una «poesia del negativo». Un lavoro promettente.
Nella poesia di Daniela Cecchini l’intarsio cerimoniale delle antifone e delle assonanze scorre dentro una sostenuta partitura discorsiva, incasella figure tratte dal repertorio più vario, anche da quello della poesia civile. La versificazione è a metro libero. La tensione tra lirico e narrativo, su cui si regge questo canzoniere, è mantenuta senza concessioni al didascalico, né al patetico: gli scenari sono storici, concernono i drammi del nostro tempo; il dissidio esistenziale che ne consegue si riflette e prende evidenza dalle vicende narrate, spesso raggiungendo in chiusa di testo immagini di sintesi che non si dimenticano: «Monocromo, prezioso cammeo», «… La sabbia del tempo / scandisce / il ritmo incolore dell'esistenza. / Nello spazio privo di confini / noi, anime inadeguate...».
La poesia della Cecchini intona così, con ansia raziocinante, il suo rosario di disincanto e dis-appartenenza, che, come per sfida s’impunta, con spietata tenerezza, sul motivo etico, sullo scatto civico. Circola in queste poesie l'amarezza e il civile risentimento per le donne conculcate dei loro diritti, per i soprusi perpetrati contro gli indifesi e i bambini, lo sdegno per le ingiustizie degli uomini, l’umiliazione per la trama di affetti negati: «La tua mano tremante e calda», con il lemma assertorio in evidenza, come in «Contiguo confine tra genio e follia».
Alcuni degli esiti migliori si trovano in scene di crudo esterno urbano, ma anche in immagini colte al volo di luoghi e persone che potrebbero facilmente ridursi a bozzetti ed, invece, si dilatano in prove di vasta allegoria, come se lo spleen della Cecchini vi traducesse, in controluce, i quadri di un suo Baudelaire immaginario.
Del resto, Daniela Cecchini non nasconde i propri maestri, li chiama indirettamente e velatamente in causa attraverso rimandi criptici e allusivi alla grande poesia civile di Fortini, di Caproni, di Pasolini.
Riverberi, allusivi e anamnestici richiami, ma anche tappe autonome di una poetica personale che si dispiega con dovizia di spunti interpretativi e di riferimenti iconici. Poche pagine di poesia in cui si condensa esemplarmente la “costellazione” che presiede alle prove di più di una generazione: come un tempo si dovette attraversare Carducci, Pascoli, D’Annunzio, adesso i territori da attraversare sono soprattutto le liriche d'impegno civile dei poeti nominati e della poesia di Helle Busacca. Com’è giusto che sia.
Ma le genealogie letterarie, alla fine, non sono di per sé garanzia di alcunché, e non è per quelle che condividiamo la poesia di Daniela Cecchini, bensì per i suoi lemuri, per il pervasivo pensiero che intensamente manifesta e per gli umori che improvvisamente svela.
1 A. Berardinelli Casi critici Dal postmoderno alla mutazione Quodlibet 2007 p. 305
2 G. Linguaglossa Dopo il Novecento Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, 2013
Giorgio Linguaglossa