SINESTESIE DELL’IO DI DANIELA CECCHINI
RECENSIONE A CURA DI GAVINO ANGIUS (SCRITTORE, CRITICO LETTERARIO, EDITOR)
In quest’Opera Prima di Daniela Cecchini l’io poetico campeggia sin dal titolo e Il lettore, avvertito, terrà in giusto conto quelle sinestesie annunciate che circondano e imbrigliano l’io, facendolo strumento sensibile e partecipe, ma fermo, d’ogni ripercussione dei segnali provenienti dal mondo, delle convergenze dei temi diversi che gravitano verso un denominatore unico e segreto. Temi non tutti frequentatissimi oggi, in questa raccolta: amorosi, familiari, e anche – giova sottolinearlo – etici e civili, sui quali ci soffermeremo a dire qualche parola più avanti.
Se autobiografia c’è, in questo libro, è perciò un’autobiografia plurale, con radici affondate salutarmente nell’humus delle cose, nelle vicende domestiche e planetarie della vita, negli affetti e negli orrori, resa nell’unico modo possibile e autentico, per chi oggi voglia scrivere poesia: un dettato severo, franto, di contrasti cercati, come ottenuto più dalla contrapposizione dialettica di tessere musive, che da una morbida e sfumata modulazione pittorica. La musica di questi versi, secondo un bel flusso prosodico, fra dolori e introspezioni, interrogativi esistenziali, spesso sullo sfondo di scenari naturali, ha infatti una strana tensione e sebbene nella poesia di Daniela Cecchini non si possano invocare parentele prossime e immediatamente riconoscibili, l’effetto – si badi bene: l’effetto, e non i mezzi – è quello solenne di un cantus firmus, appena sollevato da modulazioni tanto più preziose quanto meno attese,
L’io, dunque, perno e croce di ogni vocazione all’autobiografia, sarà anche la voce fondamentale di un coro ricco di altre risonanze, varietà ed equilibri di voci aperte e non facilmente udibili se non da un orecchio esercitato. L’io, quell’io, sarà il catalizzatore tematico, che si pronuncia per oracoli, tutt’altro che sibillini, semmai accecanti per chiarezza:
Dissimulazione in scena
sinossi già nota.
Quale maschera indosso?
…
degno ingresso
ultima replica (La maschera)
il mimetismo dei poeti, di quelli veri, è la loro maniera principe, l’unica possibile, forse, per essere altruisti, per dire l’altro, anche a costo di pagare un pegno esistenziale: dissimulare fermandosi al crocevia delle esperienze vitali, dove impulsi e conoscenza cercano una regola, sapendo che alla fine, quando il sipario è davvero calato e la maschera – uno strumento, uno fra i tanti possibili, da non innalzare a feticcio – è stata rimossa:
il vuoto mi riconcilia (Clessidra).
Mobile, in questo vuoto riconciliante, il poeta, e per lui l’occhio e la voce, si fanno inciampo per la memoria.
In un mondo in cui le recinzioni di filo spinato e i forni di Dachau sono un memento imbarazzante, una pagina da voltare precipitosamente a ogni anniversario, la pronuncia dimessa e scabra di Daniela Cecchini fruga nella cronaca per farne poesia, si spinge fino a provocare nella sua tana lo spirito del tempo, un’arte rimossa, questa.
Senza declamazioni o aggettivi superflui, come chi pronunci una diagnosi ovvia seppur da sempre ignorata, ma con un presago incupirsi della dizione che si fa concrezione musicale e snodo logico insieme, la poesia di Daniela Cecchini trova parole trasparenti per l’orrore di altre latitudini e culture, e allora l’elegia per le spose bambine assume caratteri di descrittività trasognata, ma l’effetto non è di filtro o edulcorazione:
Suggellata intesa,
patto di mano fra adulti e fieri sguardi:
struttura amorfa di personalità,
ali tarpate,
congenita eredità per noi bambine,
come fu per le madri nostre. (Distanti)
E la cadenza litanica, straniata, disegna robusti contrasti d’acquaforte. Fra le maschere del poeta, c’è quella delle bambine passate di mano in mano, dell’eredità senza colpa, del futuro cancellato nello stesso momento in cui viene scritto. In altre composizioni saranno le bambine soldato o il profugo annegato. Ne spunteranno altre, con tratti d’età e d’etnie diverse, e per tutte le poesia saprà dire a pieno titolo io sono questo. Individui senza nome e con tanti nomi, io, tu, voi, che si aggirano in territori non più simbolici, fra:
Case senza finestre
un dedalo d’implosioni (Non c’è via di fuga)
Poesia che cerca, non richiede complicità al lettore, ma una straniata scelta di campo, sollecitandolo con il velato pudore dei versi dedicati agli affetti familiari, o con la raffrenata ironia di una composizione come “L’incanto del Natale” che si consuma (o si liquida):
fra contumaci certezze
e venti di guerra.
Iconico scenario
dinanzi ai nostri occhi
velati di agevole indifferenza.
Non cercavamo parentele o affinità, non le troveremo, in questi versi, se non forse nelle torsioni ritmiche e astratte, nelle accensioni percussive o nelle improvvise, ma brevissime, schiarite coloristiche e tonali, di poeti ampiamente fuori corso oggi, e ai loro tempi, ai due estremi dello spettro, come Piera Oppezzo o il Gatto resistenziale.
A corollario, non sfugge come nel mondo poetico di Daniela Cecchini, l’amore-eros non goda di particolari preminenze ontologiche: è un accadimento fra gli altri, suscettibile di acquisire forma e spessore, così come di perderli in una cerimonialità sacrificale che ha cadenze di stupefazione quasi offesa. Quell’amore, che si vuole “pensoso” nella lirica eponima, mette fondo alle sue lusinghe di specchio deformante sotto un’impassibilità di sguardo che non è impassibilità dell’anima. Testimonianza, piuttosto, di spettatrice che nella poesia sa esporsi alla corrosione inevitabile:
Resto spettatrice inerme
del tuo ambiguo meccanismo,
che ti regala solo proiezioni del tuo essere,
niente più.
Nella folle malinconia
di chi insegue la sua ombra,
una forza interna, sconosciuta
e fortissima impartisce
ineludibili ordini. (Ossessione)
Questa la cifra definitiva dell’esile ma prezioso volumetto di Daniele Cecchini: la semplice, chiaroveggente apertura d’orizzonte d’un io messo in fermento dalle contese e dai doni, gravido di domande implicite e di immagini esemplari. Una su tutte, di pietas senza ostentazioni e senza confini:
Ordinate impronte
di ballerine bianche,
il loro singolare movimento rapita osservo.
Nel limo, in cerca di cibo,
la madre attenta le conforta. (Proiezioni interiori)
Il resto, o la storia, al di fuori di ogni facile retorica, siamo noi, al di qua o al di là della pagina, avvinti a un destino comune, dove la poesia, come quella di Daniela Cecchini, può offrire un poco di lume, difficile a spegnersi.
RECENSIONE A CURA DI GAVINO ANGIUS (SCRITTORE, CRITICO LETTERARIO, EDITOR)
In quest’Opera Prima di Daniela Cecchini l’io poetico campeggia sin dal titolo e Il lettore, avvertito, terrà in giusto conto quelle sinestesie annunciate che circondano e imbrigliano l’io, facendolo strumento sensibile e partecipe, ma fermo, d’ogni ripercussione dei segnali provenienti dal mondo, delle convergenze dei temi diversi che gravitano verso un denominatore unico e segreto. Temi non tutti frequentatissimi oggi, in questa raccolta: amorosi, familiari, e anche – giova sottolinearlo – etici e civili, sui quali ci soffermeremo a dire qualche parola più avanti.
Se autobiografia c’è, in questo libro, è perciò un’autobiografia plurale, con radici affondate salutarmente nell’humus delle cose, nelle vicende domestiche e planetarie della vita, negli affetti e negli orrori, resa nell’unico modo possibile e autentico, per chi oggi voglia scrivere poesia: un dettato severo, franto, di contrasti cercati, come ottenuto più dalla contrapposizione dialettica di tessere musive, che da una morbida e sfumata modulazione pittorica. La musica di questi versi, secondo un bel flusso prosodico, fra dolori e introspezioni, interrogativi esistenziali, spesso sullo sfondo di scenari naturali, ha infatti una strana tensione e sebbene nella poesia di Daniela Cecchini non si possano invocare parentele prossime e immediatamente riconoscibili, l’effetto – si badi bene: l’effetto, e non i mezzi – è quello solenne di un cantus firmus, appena sollevato da modulazioni tanto più preziose quanto meno attese,
L’io, dunque, perno e croce di ogni vocazione all’autobiografia, sarà anche la voce fondamentale di un coro ricco di altre risonanze, varietà ed equilibri di voci aperte e non facilmente udibili se non da un orecchio esercitato. L’io, quell’io, sarà il catalizzatore tematico, che si pronuncia per oracoli, tutt’altro che sibillini, semmai accecanti per chiarezza:
Dissimulazione in scena
sinossi già nota.
Quale maschera indosso?
…
degno ingresso
ultima replica (La maschera)
il mimetismo dei poeti, di quelli veri, è la loro maniera principe, l’unica possibile, forse, per essere altruisti, per dire l’altro, anche a costo di pagare un pegno esistenziale: dissimulare fermandosi al crocevia delle esperienze vitali, dove impulsi e conoscenza cercano una regola, sapendo che alla fine, quando il sipario è davvero calato e la maschera – uno strumento, uno fra i tanti possibili, da non innalzare a feticcio – è stata rimossa:
il vuoto mi riconcilia (Clessidra).
Mobile, in questo vuoto riconciliante, il poeta, e per lui l’occhio e la voce, si fanno inciampo per la memoria.
In un mondo in cui le recinzioni di filo spinato e i forni di Dachau sono un memento imbarazzante, una pagina da voltare precipitosamente a ogni anniversario, la pronuncia dimessa e scabra di Daniela Cecchini fruga nella cronaca per farne poesia, si spinge fino a provocare nella sua tana lo spirito del tempo, un’arte rimossa, questa.
Senza declamazioni o aggettivi superflui, come chi pronunci una diagnosi ovvia seppur da sempre ignorata, ma con un presago incupirsi della dizione che si fa concrezione musicale e snodo logico insieme, la poesia di Daniela Cecchini trova parole trasparenti per l’orrore di altre latitudini e culture, e allora l’elegia per le spose bambine assume caratteri di descrittività trasognata, ma l’effetto non è di filtro o edulcorazione:
Suggellata intesa,
patto di mano fra adulti e fieri sguardi:
struttura amorfa di personalità,
ali tarpate,
congenita eredità per noi bambine,
come fu per le madri nostre. (Distanti)
E la cadenza litanica, straniata, disegna robusti contrasti d’acquaforte. Fra le maschere del poeta, c’è quella delle bambine passate di mano in mano, dell’eredità senza colpa, del futuro cancellato nello stesso momento in cui viene scritto. In altre composizioni saranno le bambine soldato o il profugo annegato. Ne spunteranno altre, con tratti d’età e d’etnie diverse, e per tutte le poesia saprà dire a pieno titolo io sono questo. Individui senza nome e con tanti nomi, io, tu, voi, che si aggirano in territori non più simbolici, fra:
Case senza finestre
un dedalo d’implosioni (Non c’è via di fuga)
Poesia che cerca, non richiede complicità al lettore, ma una straniata scelta di campo, sollecitandolo con il velato pudore dei versi dedicati agli affetti familiari, o con la raffrenata ironia di una composizione come “L’incanto del Natale” che si consuma (o si liquida):
fra contumaci certezze
e venti di guerra.
Iconico scenario
dinanzi ai nostri occhi
velati di agevole indifferenza.
Non cercavamo parentele o affinità, non le troveremo, in questi versi, se non forse nelle torsioni ritmiche e astratte, nelle accensioni percussive o nelle improvvise, ma brevissime, schiarite coloristiche e tonali, di poeti ampiamente fuori corso oggi, e ai loro tempi, ai due estremi dello spettro, come Piera Oppezzo o il Gatto resistenziale.
A corollario, non sfugge come nel mondo poetico di Daniela Cecchini, l’amore-eros non goda di particolari preminenze ontologiche: è un accadimento fra gli altri, suscettibile di acquisire forma e spessore, così come di perderli in una cerimonialità sacrificale che ha cadenze di stupefazione quasi offesa. Quell’amore, che si vuole “pensoso” nella lirica eponima, mette fondo alle sue lusinghe di specchio deformante sotto un’impassibilità di sguardo che non è impassibilità dell’anima. Testimonianza, piuttosto, di spettatrice che nella poesia sa esporsi alla corrosione inevitabile:
Resto spettatrice inerme
del tuo ambiguo meccanismo,
che ti regala solo proiezioni del tuo essere,
niente più.
Nella folle malinconia
di chi insegue la sua ombra,
una forza interna, sconosciuta
e fortissima impartisce
ineludibili ordini. (Ossessione)
Questa la cifra definitiva dell’esile ma prezioso volumetto di Daniele Cecchini: la semplice, chiaroveggente apertura d’orizzonte d’un io messo in fermento dalle contese e dai doni, gravido di domande implicite e di immagini esemplari. Una su tutte, di pietas senza ostentazioni e senza confini:
Ordinate impronte
di ballerine bianche,
il loro singolare movimento rapita osservo.
Nel limo, in cerca di cibo,
la madre attenta le conforta. (Proiezioni interiori)
Il resto, o la storia, al di fuori di ogni facile retorica, siamo noi, al di qua o al di là della pagina, avvinti a un destino comune, dove la poesia, come quella di Daniela Cecchini, può offrire un poco di lume, difficile a spegnersi.